Senza titolo (Sfera), 2012
Boccia di vetro, calcare, polvere
Diametro 25 cm.
Fotografia Floriana Giacinti
Untitled (Sphere), 2012
Glass bowl, limestone, dust
Diameter 25 cm.
Photo Floriana Giacinti
I fiori in tasca
Vedo i fiori ai miei piedi e sono altri i fiori che io vedo.
Quelli che ritmicamente calpestavamo.
Sono poi gli stessi.
Samuel Beckett, Basta.
Mutuando ciò che scrive Jacques Lacan a proposito del neologismo, potremmo definire il lavoro di Giovanni Oberti, qui alla sua prima personale presso la galleria Enrico Fornello, come una strategia significante che non rinvia a nessuna significazione che non sia che la propria significazione, la quale fa peso e ostacolo in se stessa senza alcun rimando e senza alcuna inclinazione transferale. Contestualmente però e sempre attraverso Lacan, il titolo della mostra ‘i fiori in tasca’ sembra rimandare a ciò che lo psicanalista francese contrappone proprio al neologismo e cioè il ritornello, la cantilena, un qualcosa che ribatte, si ripete, si reitera, si sciorina con una persistenza integralmente stereotipa. E’ proprio attraverso il sincronismo inallogabile e indistricabile di questa doppia pratica della contrazione e dello spargimento – pratica bifida, ossimorica, indistinguibile e incollocabile che si conserva proprio perdendone l’indizio – che il lavoro di Oberti scoperchia e rende visibile una specie di densità ottusa, un piombo nella rete che si manifesta nella forma stessa della propria – impossibile – significazione, come un miraggio, scrive Massimiliano Fierro, “che non dovrebbe mai stancarsi di mostrare sempre le condizioni materiali che lo rendono tale”.
Si mostra qualcosa come niente, ma un niente senza nome – ipostatizzato dall’artista che firma o meglio controfirma il titolo della mostra attraverso la fuliggine che demarca e rileva, scrive Jacques Derrida, “ un resto che è d’obbligo che non resti più: questo luogo di un nulla di nulla, un luogo puro anche se si dovesse cifrare” – ad un tempo al di qua e al di là dell’anonimato, impersonalmente singolare, rigettato in un evento che si fa mentre non diviene evento che come limite interno. Limite proprio, senza fondo del limite puro che appare direttamente, tautologicamente, sperimentando un atto che non si prolunga nel tempo se non temporalizzandosi, designandosi come proprio idioma diretto, pezzo di un evento unico, adeguato all’intero tempo. L’opera, l’operare di Oberti mostra allora la chiusura che si dona proprio nella res gestae di un’irriducibile manifestazione esautorante: un evento interno al tempo nel senso in cui è la differenza interna al proprio tempo, l’interiorizzazione della sua separazione che non fonda e non costruisce ma mette sotto gli occhi una condensazione aggregata sotto i colpi di maglio di una frammentazione sempre in agguato.
Alessandro Sarri, 2012